Lavorare genera speranza. A maggior ragione in carcere

12 Mag 2025 | Politica

Regina Coeli, terza sezione. È lì che Alcide De Gasperi fu imprigionato tra il marzo 1927 e l’ottobre 1928. Ci sono andato pochi giorni prima della chiusura della causa di beatificazione che lo riguarda, per capire – o almeno percepire – che cosa avesse vissuto in quel periodo in cui la sua fede si svelò così pura e forte. Sono bastati “tre scalini” per varcare la soglia di un edificio uguale a tutti gli altri, incastonato tra il Tevere e i palazzi dove la vita romana trascorre frenetica. Là dove erano costretti i prigionieri politici – oltre a De Gasperi, tra gli altri anche Pertini, Gramsci e Saragat – oggi vivono uomini di ogni razza e religione, un mondo dimenticato, un popolo di colpevoli macchiatisi di reati più o meno grandi, spesso segnati da tossicodipendenze, carichi di ansie e desideri persi che divorano il cuore. Ho incrociato sguardi
feriti ma anche sorrisi aperti, perché il bene può vincere il male anche quando sembra impossibile.

Sono molti quanti si spendono perché questo non rimanga vuota retorica ma diventi una viva vissuta. Agenti della Polizia penitenziaria, assistenti sociali e operatori sanitari, insegnanti, cooperatori sociali e volontari che si “impasta- no” con gli ospiti, come vengono chiamati, perché scontando la propria pena escano con un briciolo di umanità in più. È forse la cosa più difficile, ricomporre i pezzi di una vita rotta. E confesso di aver provato un’enorme sproporzione rispetto alla loro capacità di amore.

 

La proposta di papa Francesco

I numeri sono duri: al 31 marzo 2024, i detenuti erano 61.049, un numero pressoché stabile dal 2008. Il 31 per cento era di cittadinanza non italiana, le donne erano solo il 4,3 per cento. Il tasso di affollamento reale, che indica la percentuale di persone detenute in più rispetto ai posti effettivamente disponibili, era pari al 119 per cento. Una vera e propria emergenza è la recidiva: 6 condannati su 10 sono già stati in carcere almeno una volta. Papa Francesco, all’apertura dell’Anno del Giubileo dedicato alla speranza, propose a tutti i governi del mondo di promuovere «forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nella osservanza delle leggi».

Al netto di gesti di clemenza che anche il governo italiano potrà esercitare, c’è spazio per una manutenzione normativa della legge Smuraglia che disciplina il lavoro nelle carceri. La recidiva scende addirittura fino al 2 per cento quando il detenuto intraprende un percorso di inserimento professionale. In Italia il 33 per cento dei detenuti risulta coinvolto in attività lavorative, ma solamente l’1 per cento di essi è impiegato presso imprese private e il 4 per cento presso cooperative sociali. La stragrande maggioranza, pari all’85 per cento, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (talvolta solo per poche ore al giorno o al mese).

 

Despondere spem munus nostrum

La mancata offerta di opportunità lavorative per i detenuti priva lo Stato di un ritorno sul prodotto interno lordo (Pil) fino a 480 milioni di euro. Affinché il lavoro nelle carceri non rimanga confinato a piccole sperimentazioni, è necessario rendere la pubblica amministrazione un committente stabile delle presta- zioni erogate attraverso il lavoro in carcere, istituire uffici interni alle carceri responsabili dei percorsi di lavoro, garantire bandi e finanziamenti pluriennali per le cooperative sociali, coinvolgere il mondo delle imprese nei percorsi di formazione professionale e inserimento lavorativo anche grazie a incentivi fiscali.

Lavorare rimette in moto energie e creatività, ricostruisce relazioni e permette di ritrovare dignità e senso. In una parola, genera speranza. Il motto della Polizia penitenziaria racchiude perfetta- mente ciò che la pena dovrebbe rappresentare: «Despondere spem munus no- strum», garantire la speranza è il nostro compito. Parlare di speranza in mezzo a quelle mura apre squarci di infinito, perché pagare la pena non può essere qualcosa di procedurale o burocratico ma attiene alla dimensione più profonda di tutti. Interroga anche noi che viviamo liberi: qual è la nostra speranza?