Siamo chiamati a garantire la dimensione etica di questa straordinaria innovazione tecnologica, affinché sia preservata la dignità della persona.
Esisterà ancora il lavoro nel futuro dell’umanità? L’avvento dell’intelligenza artificiale generativa apre un nuovo orizzonte, non solo per il nostro sistema economico, ma anche per quanto attiene alla natura stessa dell’essere umano, in quanto compiuto, fin dalla sua origine, nell’atto creativo del lavoro. La storia inizia infatti con la creazione del cosmo da parte Dio. Addirittura Dio consacra il settimo giorno al riposo, segno, da un lato, che il lavoro è anche fatica e, dall’altro, che è necessario un distacco da esso perché non diventi idolo. Sempre nella Genesi, pochi versetti dopo, Dio caccia dall’Eden Adamo ed Eva e li condanna alla fatica del lavoro in terra per sopravvivere. Da allora, il genere umano si misura con la creatività e la fatica del lavoro a immagine di Dio, provando a massimizzare la prima e a minimizzare la seconda.
Il concetto di Ai non è recente ma pesca nelle prime sperimentazioni sugli algoritmi intelligenti di Alan Turing durante la Seconda Guerra mondiale. Il suo sviluppo ha subìto un’accelerazione con la diffusione dei supercomputer, che permettono oggi di elaborare big data a grandissima velocità. Le applicazioni dell’Ai hanno già effetti positivi in diversi campi di scienza e industria, come lo screening della popolazione in merito all’incidenza oncologica, la sintesi di semiconduttori più efficienti o l’identificazione di modelli nell’evoluzione genetica dei sistemi cellulari.
Non tutto si può codificare
Negli ultimi anni, però, gli ingegneri della Silicon Valley hanno iniziato a teorizzare l’inizio di una nuova era, tutta figlia del progressismo, nella quale l’umanità – o almeno parte di essa – sarà libera dal lavoro e dalla sua fatica grazie al contributo dei robot. Essi non solo svolgeranno le mansioni più faticose, come sempre avvenuto nelle passate rivoluzioni industriali, ma anche quelle a maggiore valore aggiunto. L’Ai nelle previsioni delle Big Tech sarà addirittura senziente, grazie all’integrazione tra biologico e tecnologico. Professioni evolute nel campo sanitario o giuridico, dei media o dell’arte, per esempio, troveranno un grande contributo, se non la definitiva sostituzione, da parte delle macchine.
È interessante approfondire almeno due aspetti in merito a tale postulato. Il primo riguarda la sua attendibilità. Federico Faggin, fisico italiano inventore del microchip negli anni Sessanta, in un suo recente saggio (Irriducibile, 2022) si è interrogato sulla natura dei robot. Il computer, qualunque potenza abbia, «non ha comprensione di ciò che dice, poiché in esso è presente solo l’aspetto simbolico, ma manca quello semantico. È l’opposto di quanto avviene negli esseri umani […], noi comprendiamo le cose da dentro». Per questo l’Ai avrà sempre bisogno della mediazione umana e non si potrà attribuirle una capacità decisionale autonoma, pena il rischio di incorrere in scelte errate e pericolose. Al tempo stesso, se è vero che possiamo insegnare alle macchine a collaborare tra loro, «non sarebbe possibile costruire macchine guidate da un amore interno, perché esse non lo possono provare. L’amore non è codificabile, né vi sono algoritmi per insegnarlo». La dimensione senziente, secondo Faggin, appartiene quindi solo alla persona.
Il compito del legislatore
In secondo luogo, ci domandiamo quanto la quarta rivoluzione industriale che stiamo attraversando impatterà su produttività, occupazione e reddito. Gli scenari degli economisti sono molteplici e ci danno poche certezze. Secondo l’Osservatorio Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica, le nuove tecnologie miglioreranno la qualità della vita delle persone e determineranno un profondo aggiornamento dei modelli organizzativi delle imprese, ma, come già avvenuto con Internet, non avranno effetti macroeconomici positivi paragonabili a quelli che ebbero, nel dopoguerra, beni come l’automobile, il frigorifero o la tv. Dal punto di vista dell’occupazione, invece, interi settori industriali saranno travolti, mentre altri nasceranno: rimane incerto se il saldo sarà positivo o negativo e soprattutto come dovrà evolvere il nostro sistema educativo per rispondere alle nuove domande del mercato del lavoro.
L’Ai è un fenomeno pertanto da cavalcare ma parimenti da governare. Come sottolineato da padre Paolo Benanti, l’unico italiano nel Comitato Onu sull’Ai, siamo chiamati, soprattutto come legislatori, a garantire la dimensione etica di questa straordinaria innovazione tecnologica, affinché sia garantita la dignità della persona e del lavoro. Il lavoro certamente cambierà ma difendere il lavoro dell’uomo significa difendere l’essenza stessa di ciascuno di noi.
Articolo apparso sulla rivista Tempi di Agosto 2024