I punti fermi e le domande drammatiche che ho raccolto sul campo in Israele

20 Mar 2024 | Esteri, Politica

L’ipotesi dei “due popoli, due Stati” appare lontana; tuttavia, deve restare la meta cui tendere. E perché sia possibile, si deve valutare il perdono come categoria politica.

Nelle scorse settimane ho preso parte a una missione istituzionale in Israele, incontrando autorità a Tel Aviv e Gerusalemme e visitando territori di confine con la Striscia di Gaza. Sono voluto andare a vedere con i miei occhi quanto sta accadendo, per capire meglio le cause e gli effetti di questo ennesimo scontro che insanguina quella parte del mondo e per dare un contributo – seppur piccolo ma proporzionato alle mie forze – alla pace.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre è un atto terroristico, contrario a ogni tipo di regola bellica. Non è stato anticipato da alcuna dichiarazione di guerra e ha colpito in larga parte civili inermi. Una violenta e disumana caccia all’uomo, con esecuzioni sommarie, abusi, torture e rapimenti. Israele si è fatto trovare impreparato e questo ha aperto profondi interrogativi nell’opinione pubblica sull’operato di Netanyahu e del suo governo, delle forze armate e dei servizi di sicurezza. Ad ogni modo, ho colto compattezza: i parlamentari di opposizione confermano che esiste una sorta di fronte nazionale in quella che viene definita una “guerra esistenziale”.

Si tratta di un assunto decisivo: l’attacco rappresenta l’inizio di una guerra che può mettere in pericolo l’esistenza stessa di Israele? È pacifico che si tratta di un’iniziativa non estemporanea, preparata con largo anticipo da Hamas e con il sostegno e forse la regia dell’Iran. Ecco, quindi, che il tutto assume contorni che travalicano i confini della Striscia e coinvolge l’intera regione. Israele, sentendosi accerchiato in una morsa ostile, è intervenuto per ristabilire i rapporti di forza.

Nel kibbutz “tradito”

Ricordiamo che Israele è l’unica democrazia dell’area tra una serie di dittature più o meno velate e teocrazie islamiste. E conta solo 9 milioni di abitanti, nei fatti una briciola rispetto alla popolazione dei suoi confinanti. Con questi numeri, ogni israeliano è chiamato a dare il proprio contributo alla difesa e alla sicurezza nazionale ed è impressionante vedere molti e molte giovani, poco più che maggiorenni, indossare un’uniforme e imbracciare con naturalezza un mitra. Il loro sguardo fiero è il simbolo dell’orgoglio di un intero popolo. Un popolo eletto – il popolo eletto – attorno al quale da duemila anni si giocano i destini dell’umanità.

Ma oggi, a distanza di più di 150 giorni di guerra, il mondo si chiede se la risposta israeliana sia proporzionata e giustificata, considerando le 30 mila vittime palestinesi, per lo più civili. Parlando con chi ancora abita a Kfar Aza, uno dei kibbutz dove si sono concentrati i primi attacchi e dove sono morte più di 50 persone – da lì vedevo distintamente Gaza City –, emerge nitido il senso di tradimento verso i molti palestinesi ai quali erano state aperte le porte di casa. Gli ebrei che hanno deciso di abitare in quei kibbutz di confine, infatti, avevano scelto di provare a costruire la pace con la Palestina, favorendo contatti commerciali e relazioni lavorative. Erano coloro che più di tutti in Israele credevano in una possibile convivenza, ma sono stati i primi ad essere trucidati e ciò ha annichilito le posizioni più aperturiste nella società israeliana.

La via più impervia

Gli alleati di Israele, guidati dagli Stati Uniti e dei quali l’Italia fa parte, non hanno fatto mancare la propria solidarietà. Israele rappresenta una parte di tutti noi e la sua esistenza è promessa di libertà e sviluppo laddove tali princìpi non sono tradizionalmente garantiti. È però legittimo chiedersi se non si stia ponendo in una posizione di maggiore insicurezza mettendo in campo una risposta militare così distruttiva. La presenza nelle mani di Hamas di decine ostaggi è chiaramente un fattore dirimente la postura di Israele, ma sconfiggere Hamas militarmente è un’impresa di enorme difficoltà considerando la morfologia della Striscia, il dedalo di tunnel sotterranei costruiti negli anni e l’intreccio di connivenze tra quelle strade. In più, colpire il popolo palestinese così duramente rischia di alimentare una spirale d’odio sempre più grave.

La questione palestinese si protrae da decenni, con alti e bassi nelle relazioni diplomatiche e oggi tocca il suo punto più critico. L’ipotesi dei “due popoli, due Stati” appare lontana; tuttavia, deve restare un punto cui tendere, perché le armi non possono essere la soluzione del conflitto. È urgente un cessate il fuoco e l’apertura di negoziati, come sollecitato da molte nazioni occidentali e dalla stessa Chiesa. Perché questo sia possibile, è necessario valutare il perdono come categoria politica. È ciò che incessantemente richiama il cardinal Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme. Si tratta di una strada lunga e impervia ma forse l’unica per tornare a immaginare un futuro di pace.

 

Articolo pubblicato sulla rivista Tempi di Marzo 2024