Nella visione di verdi, sinistra e gran parte dei liberali, i paesi europei devono fare naufragare la loro economia per salvare l’ambiente. Credo che la politica possa e debba dire una parola diversa.
Caldo torrido e devastanti intemperie meteorologiche hanno acceso il dibattito pubblico, italiano ed europeo, sulla questione ambientale. Tra i temi principali che animeranno le future elezioni continentali – nei mesi scorsi questa rubrica ha provato a delinearne alcuni: immigrazione, biopolitica, guerra – e condizioneranno gli assetti di potere del Parlamento e della Commissione, sicuramente annoveriamo il Green Deal, l’idea che l’Europa possa diventare la prima area geografica a “impatto climatico zero”, riducendo le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.
La recente votazione al Parlamento europeo di una proposta di regolamento per il “ripristino della natura” è parte di questa strategia. Nelle intenzioni dei proponenti, capeggiati dal vicepresidente della Commissione Frans Timmermans e dal partito dei verdi, il ripristino degli ecosistemi è fondamentale per combattere il cambiamento climatico e ridurre la perdita di biodiversità. Ciò significa, nei target previsti dalla legge, «riparare l’80 per cento degli habitat europei che versano in cattive condizioni e riportare la natura in tutti gli ecosistemi, dalle foreste e dai terreni agricoli agli ecosistemi marini, di acqua dolce e urbani». A leggere queste parole sembra una norma necessaria e inattaccabile. In realtà, cela un grave pericolo che nasce da una concezione ideologica del rapporto tra uomo e natura, tra sviluppo di una civiltà e tutela dell’ambiente.
Decrescita e centralismo
Il primo punto, sollevato da politici e osservatori, è di carattere economico-industriale. Per salvare l’ambiente, è sufficiente limitare sempre più la produzione in Europa? I freni a pesca, agricoltura, industria sono infatti i sottostanti al testo di legge. Per ripristinare gli spazi naturali viene fissato, ad esempio, un obiettivo del 10 per cento di terreni agricoli da rendere improduttivi entro il 2030. Oppure, già oggi il 70 per cento del pesce consumato in Europa è acquistato su mercati terzi; la legge votata a stretta maggioranza dal Parlamento europeo acuirebbe la nostra dipendenza e renderebbe più incerta la sicurezza alimentare. Ma i modelli produttivi europei sono già considerati i più sostenibili al mondo, lasciare spazi indiscriminati alla pesca e all’agricoltura intensiva di altri produttori, soprattutto asiatici, non salverà sicuramente la biodiversità globale.
Il secondo motivo di forte opposizione politica, che ha visto una maggioranza trasversale di popolari e conservatori, è la iperproduzione normativa accompagnata, ancora una volta, da una violazione del principio di sussidiarietà. Con questo progetto, la Commissione vuole infatti creare standard per la copertura arborea nelle città, dettare la quota di foreste presenti nel continente e la gestione della loro età, sino alla rinaturalizzazione del corso dei fiumi con il necessario abbattimento delle dighe. Ai sindaci, ai presidenti di Regione e agli eletti verrà così imposto un vincolo uniforme che mal si addice alle diversità dei territori locali.
La verità impazzita
Infine, occorre sottolineare la base fortemente materialista dell’ideologia verde. La verità impazzita in questo caso sta nel binomio: una natura senza l’uomo, un uomo senza la natura. La natura è qui concepita come un processo di sviluppo indipendente, senza alcun orizzonte di trascendenza, e in cui l’uomo è, nella visione più positiva, un animale come gli altri, e in quella estrema un’anomalia perché capace di autodistruzione. Per salvare la natura dall’uomo e l’uomo da sé stesso, ci si affida così a modelli tecnocratici – in futuro magari guidati dall’intelligenza artificiale – creati per limitare l’intervento dell’uomo e quindi la sua responsabilità.
Secondo l’ideologia sostenuta dai verdi, dalla sinistra e dalla maggioranza dei liberali, basta che i nostri paesi facciano naufragare la loro economia, la loro industria, la loro agricoltura e il loro modello sociale, perché la natura si salvi. Credo che la politica possa e debba dire una parola diversa, vedremo se le prossima Commissione europea saprà riportare al centro del dibattito sull’ambiente posizioni più ragionevoli. Il contributo del conservatorismo sta nel dare valore alla natura in quanto consegnata alla responsabilità dell’umanità senza cadere in cortocircuiti ideologici che mettano l’una contro l’altra.
Articolo pubblicato sulla rivista Tempi di Agosto 2023