Il punto non è aumentare o inasprire le regole vigenti, e nemmeno la nostalgia per un tempo passato, bensì l’insieme dei princìpi su cui fondare la convivenza civile tra le persone.
La profezia con la quale Francis Fukuyama aveva sentenziato la “fine della Storia” nel suo celebre saggio del 1992 è stata smentita dalle più oscure pulsioni umane e dall’inefficienza del mercato globalizzato. L’idea del politologo nippo-statunitense che la caduta del Muro di Berlino e il suicidio dell’Unione Sovietica fossero l’amen conclusivo della Storia, simbolo della sconfitta definitiva del mondo delle ideologie, ceneri su cui avrebbe trionfato la nuova sintesi liberista della globalizzazione, è forse svanita definitivamente in Ucraina il 24 febbraio 2022 con il riaffacciarsi della guerra in Europa.
La Storia è tornata in movimento, anzi non si è mai arrestata, ma noi stavamo fissando l’orizzonte senza accorgerci che eravamo entrati con entrambi i piedi in una nuova epoca – in un “cambiamento d’epoca” per dirla con Francesco. È così che lo storico Adam Tooze ha reso celebre l’espressione “policrisi”, intersecando la confusa situazione dell’economia mondiale con le complicanze di numerose altre tensioni. Vale la pena ricordarne alcune che hanno segnato il primo ventennio di questo secolo.
La crisi dell’Occidente: cadono torri, tremano fondamenta
Ognuno di noi potrebbe dire con precisione il luogo dove si trovava l’11 settembre 2001, quando l’Occidente subì il più grave attacco alla sua libertà dopo la fine della Guerra fredda. Il mondo intero trattenne il respiro nell’attesa di capire se la nostra civiltà sarebbe sopravvissuta alla minaccia di chi era pronto a farsi esplodere contro di essa. Gli attacchi del terrorismo islamista non hanno solo aperto interrogativi sulla nostra sicurezza ma anche sulla nostra identità. L’Occidente sarebbe rimasto al centro della Storia e del mondo o avremmo dovuto abdicare a vantaggio di altre culture e aree geografiche? Quanto è accaduto da allora ci dice che l’Occidente non solo ha perso peso a livello globale, ma forse ha anche smarrito parte di sé.
La crisi del capitalismo: i gettoni sono finiti
Per descrivere quanto accaduto nel 2008 con l’esplosione della bolla dei mutui e il fallimento di Lehman Brothers, invito a guardare il riuscitissimo film di Adam McKay La grande scommessa, che racconta la storia di Michael Burry, l’unico broker di Wall Street che aveva capito quanto fossero instabili le fondamenta della crescita economica degli Stati Uniti nel decennio precedente. Quando la bolla è scoppiata, gli effetti sulla vita di imprese e famiglie sono stati devastanti, il livello di benessere del ceto medio si è eroso e la ricchezza si è polarizzata, allargando il divario tra protetti e non protetti. In questa cornice, lo Stato è intervenuto per salvare le banche, snodo necessario per ogni sistema economico, e ha contratto ingenti masse di debito pubblico a garanzia di quello privato, sotto forma di welfare per le famiglie e finanziamenti pubblici per le imprese. Quello che doveva essere il secolo della definitiva consacrazione del mercato e del suo ruolo quasi taumaturgico di generazione di ricchezza, ha visto ben presto il ritorno di uno Stato forte.
La crisi dell’Unione Europea: uniti ma non troppo
Nel 2016, per la prima volta dalla nascita, l’Europa ha perso un membro del suo esclusivo club. La lunga cavalcata di allargamento che ha portato a 29 gli Stati membri dell’Unione, ha subìto una brusca battuta d’arresto con Brexit. Un duro colpo se si considera che il Regno Unito è la quinta economia globale e siede nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ci si interroga pertanto se sia finita la spinta propulsiva dell’Unione Europea, se rischiamo di perdere altri compagni di viaggio e, soprattutto, su quali basi rifondare il patto di fiducia europeo. Non può consistere solamente in motivazioni economiche o nella paura di affrontare la complessità del mondo da soli: deve radicarsi in motivazioni positive e consistenti idealmente per quanto riguarda il destino dei popoli e delle nazioni.
Molte altre sarebbero le crisi da approfondire, come quella del Mediterraneo a partire dalle primavere arabe del 2010 o la crisi pandemica del 2020, senza tralasciare forse la più insidiosa, quella antropologica che si fa sempre più grave. Di fronte a tutto ciò, emerge la necessità di un ordine, senza intenderlo come un aumento o un inasprimento delle regole vigenti o come una nostalgia per un tempo passato, bensì come insieme di princìpi su cui fondare la convivenza civile tra le persone. Si tratta di una categoria politica sulla quale scommettere, sicuramente il conservatorismo deve farlo, affinché la confusione e l’instabilità non prevalgano. Riscoprire l’ordine delle cose potrebbe dunque essere già una piccola, grande rivoluzione.
Articolo pubblicato sulla rivista Tempi di Gennaio 2024