Unire non vuol dire omologare.

24 Lug 2022 | Esteri

Spunti per un nuovo europeismo. Una ricerca da portare a Bruxelles

Si può essere uniti nelle differenze? Lo slogan coniato anni fa per l’Unione Europea – “Unity in Diversity” – sembra ormai un ferro vecchio: la traiettoria, prima culturale e poi sempre più intensamente politica, è l’omologazione. Basta vedere i nostri dibattiti sulle questioni etiche, sulla gestione della pandemia, sulla guerra: le voci dissenzienti vengono usate per alzare gli share dei programmi tv o divengono il facile bersaglio polemico delle buone penne. Quando, poi, i cittadini votano, gli osservatori, perplessi e stupiti, si accorgono delle polarizzazioni presenti nella società europea chiedendosi dove fossero nascosti coloro che guardano ai valori tradizionali, all’orgoglio nazionale, all’economia reale.

Una bella ricerca del Martens Centre for European Studies, il network delle fondazioni del Partito Popolare Europeo, a cui aderisce per l’Italia la Fondazione De Gasperi, cerca di andare controcorrente e ricostruisce le faglie lungo le quali la politica può e deve intervenire per inaugurare un nuovo europeismo.

I dati, raccolti dal gennaio 2020 al marzo 2022, restituiscono alcune fratture culturali che corrono lungo le dorsali geografiche dell’Unione, non senza sorprese. Se sullo stile di vita e sui valori familiari ci si potrebbe aspettare una differenziazione tra Paesi centro europei come Polonia e Ungheria e gli Stati Nord Occidentali come Germania, Belgio, Olanda e Svezia, più difficile è immaginarsi la maggiore propensione per il progresso tecnologico del Centro Europa rispetto al resto del Continente. Ancora più sorpresa desta la contestuale presenza di fiducia nell’Unione Europea e di forte orgoglio nazionale che caratterizza soprattutto i Paesi che hanno confini esterni, sia lungo il fronte orientale che quello mediterraneo.

Lo studio approfondisce poi la presenza di cinque gruppi culturali, trasversali ai vari Paesi. Qui ritroviamo una più tipica diversificazione. I “creativi”, ormai dominanti nei centri cittadini e nelle istituzioni comunitarie, sono il gruppo più cosmopolita e secolarizzato. I “tradizionalisti” e i “progressisti”, le due facce della stessa medaglia, si dividono specularmente sul fronte valoriale, religioso e dello stile di vita. Emergono poi due interessanti cluster: i “realizzatori”, liberali sul mercato ma conservatori sulle questioni sociali, con buoni titoli di studio e orgogliosi di contribuire al futuro del loro Paese; ed infine i giovani in carriera affascinati dall’avventura, dai rischi e dal denaro, i cosiddetti “challengers”.

Torniamo allora alla domanda inziale: una composizione così eterogenea può stare insieme? Anne Blanksma Çeta e Federico Ottavio Reho, i curatori della ricerca, con un’analisi intelligente e una proposta dettagliata, scommettono di sì. Dopo diversi decenni di largo “consenso permissivo” nel supporto all’integrazione europea, le “policrisi” degli anni 2010 – prima finanziarie ed economiche, poi sociali e migratorie, da ultimo sanitarie e di sicurezza – hanno portato a una massiva diversificazione delle posizioni sul presente e il futuro dell’Unione che non possono essere semplicisticamente racchiuse nelle polarità “Euroscettici vs Euroentusiasti”, “Globalisti vs Nazionalisti”, “Ovunque vs Da qualche parte”.

Basta con l’assimilazionismo

Per tenere assieme aspetti così diversi delle culture europee non basta l’assimilazionismo bruxellese, occorre, ci dicono gli Autori, nuovamente scommettere sul crescente desiderio di unità dei cittadini europei, sulla richiesta di una difesa comune, di un mercato bilanciato tra crescita economica e protezione sociale, sull’attenzione ai costi privati connessi alla svolta verde, sul rispetto delle differenze culturali in materie morali, sulla strana correlazione tra unità sovranazionale e patriottismo locale, sul rafforzamento di partiti politici in competizione tra loro.

Per un nuovo europeismo, in fondo occorre riscoprire la sussidiarietà, quella capacità di guardare la realtà secondo la sua ricchezza e complessità senza costringerla dentro schemi ideologici soprattutto se contrari alla natura, al buon senso e alla libertà. Un principio architettonico per riscoprire la dinamicità delle società europee, il loro formarsi dal basso, le differenze culturali che fanno del Vecchio Continente un intero mondo racchiuso tra quattro mari.

Pubblicato sulla Rivista Tempi