Siamo chiamati a governare la transizione epocale imposta dall’Ai per non esserne travolti. La legge sulla partecipazione al lavoro promossa dalla Cisl e in discussione alla Camera è un buon segnale.
Siamo nel vivo della quarta rivoluzione industriale e stiamo scoprendo le potenzialità, apparentemente infinite, dell’intelligenza artificiale generativa. Molte sono le incognite, soprattutto in merito agli effetti sul sistema economico. I più sono convinti che inciderà sulla nostra vita in misura maggiore rispetto al motore a vapore o a internet. Quali mestieri scompariranno e quali nasceranno? Che significato avrà il lavoro per le nuove generazioni? Istituzioni e rappresentanze d’impresa e sindacali sono chiamate a governare questa transizione epocale perché la nostra società non ne sia travolta.
Tra i diversi interrogativi sollevati dalla diffusione dell’Ai vi è quello di un futuro senza lavoro. È interessante perciò vedere quella che è stata l’evoluzione della concezione del lavoro in Italia, per trovare solide fondamenta su cui impostare il prossimo mercato del lavoro. Il lavoro è stato un punto di unità nazionale nella fase costituente. L’articolo 1 della Carta rappresenta infatti l’architrave della nostra identità democratica. Si possono poi individuare tre grandi fasi dello sviluppo delle relazioni industriali dal dopoguerra ad oggi, come indicatore evolutivo del nostro modo di intendere il lavoro. Si può dire, sinteticamente, che è stata una continua tensione tra spinte riformiste e forze massimaliste.
Il boom e gli anni di piombo
La prima fase va dalla seconda metà degli anni Quaranta agli anni Sessanta: gli anni della ricostruzione e del boom in cui l’Italia entra nel club delle potenze industriali. Si struttura la dorsale produttiva della nostra economia, quella costellazione di centinaia di migliaia di micro, piccole e medie imprese che hanno saputo crescere e competere a livello globale. È allora che si è sostanziata la specifica cultura del lavoro del nostro paese, fatta di sacrificio, ingegno, creatività e amore per il bello, per le cose ben fatte. Allo stesso tempo, inizia a strutturarsi anche la rappresentanza del lavoro, dopo il periodo corporativo fascista. Un passaggio decisivo è la scomposizione nel 1950 del sindacato unico. Dalla Cgil nascono due nuovi sindacati, Cisl e Uil. I lavoratori figli della cultura cattolica e liberale ma anche socialista e repubblicana si sottraggono alla pretesa egemone del Pci, dando forma a due sindacati riformisti.
Entriamo così nella seconda fase, anni Settanta e Ottanta. Anni che si aprono all’insegna dello Statuto dei lavoratori: viene riconosciuto dalla legge il ruolo del sindacato nelle fabbriche. Ben presto però il terrorismo brigatista sceglie il lavoro come tema di scontro ideologico e sociale e si registrano i primi attentati contro politici, accademici, industriali e sindacalisti. Il riformismo riprende piede con la “marcia dei quarantamila” del 1980, possente protesta non violenta dei quadri Fiat, non più disponibili a veder leso il proprio diritto al lavoro da parte di frange estreme del sindacato. Sarà poi il governo Craxi a siglare nel 1984 con le associazioni datoriali, la Cisl e la Uil (non è un caso l’assenza della Cgil) l’accordo di San Valentino con cui viene superata la “scala mobile”, slegando la dinamica salariale da quella inflattiva. Una scelta coraggiosa, confermata da referendum popolare nel 1985, che punta tutto sulla crescita della produttività del lavoro. Le forze estremiste rispondono con un gesto eclatante: nel 1985 viene ucciso Ezio Tarantelli, uno degli ideologi dell’accordo.
L’epoca Biagi e il futuro
Gli anni Novanta e Duemila segnano l’avvento di internet e della globalizzazione. I paradigmi cambiano profondamente e si necessita di una nuova fase riformista nella normazione del lavoro, che armonizzi la cornice italiana con quella europea e liberi le energie inespresse del sistema economico. Sarà Marco Biagi a interpretare la nuova fase, con il Pacchetto Treu (1997), il Patto per Milano (2000) e la Legge Biagi (2003). Si conta che sia stato generato un milione di posti di lavoro ma Biagi ha pagato con la vita, assassinato dalle Nuove Brigate rosse nel 2002, solo tre anni dopo l’omicidio di un altro giuslavorista, Massimo D’Antona.
Oggi dunque la responsabilità delle istituzioni e delle rappresentanze datoriali e sindacali è quella di impostare il mercato del lavoro, per affrontare le sfide della quarta rivoluzione industriale, su princìpi collaborativi e non più antagonisti. Saremo capaci di un nuovo riformismo? Molto è da fare ma credo che ci siano già dei buoni segnali come per esempio la proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione di impresa, promossa dalla Cisl e in discussione alla Camera. È un esempio, anche culturalmente significativo, di come il lavoro possa tornare a essere fattore di unità nazionale.
Articolo pubblicato sulla rivista Tempi di Aprile 2024