Meglio premiare con sgravi fiscali il rinnovo dei contratti scaduti da tempo oppure puntare sulla partecipazione dei dipendenti agli utili dell’impresa, come proposto dalla Cisl.
L’incipit della nostra Costituzione ce lo ricordiamo tutti: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». La nostra Carta inizia così, ponendo il lavoro quale fondamento della vita democratica. I costituzionalisti sanno bene che quello che oggi appare un elemento imprescindibile della nostra identità nazionale – del quale giustamente andare fieri – non era all’indomani della Seconda Guerra mondiale un fattore condiviso, tanto che il dettato fu il frutto di un grande compromesso tra democristiani e comunisti, anche per evitare la formula assai pericolosa di “Repubblica fondata sui lavoratori” proposta da Togliatti per rendere l’Italia un satellite dell’Internazionale socialista. Purtroppo, quel punto di equilibrio durò poco perché sul lavoro le grandi famiglie politiche tornarono presto a scontrarsi e la Repubblica venne insanguinata dalle frange extraparlamentari che colpirono duramente esponenti delle imprese, del sindacato e del mondo giuslavorista.
A distanza di più di 75 anni, la politica ancora si accende attorno alle tematiche lavoristiche come il reddito di cittadinanza e il salario minimo. Tutto ciò non deve sorprendere perché il lavoro, insieme alla dimensione affettiva, è l’ambito in cui la persona si esprime e contribuisce ai destini della propria famiglia e della propria comunità. È per questo che il lavoro è una cosa assolutamente seria sulla quale la politica è chiamata a dimostrare la propria capacità di visione. Il lavoro deve essere giusto e quindi equamente retribuito, svolto in piena sicurezza e deve lasciare spazio agli altri aspetti necessari della vita come il riposo, la famiglia e la socialità.
Non solo reddito
Non vi è dubbio che sussistano gravi storture nel nostro mercato del lavoro, a partire dai mille lavoratori che ogni anno perdono la vita in fabbrica o in ufficio, al cosiddetto lavoro povero che è anche frutto di una dinamica dei salari che non premia la produttività, fino al grande nodo della conciliazione famiglia-lavoro che vede l’Italia ancora particolarmente arretrata. Ciò detto, negli ultimi anni si è affermata in Italia una concezione del lavoro alquanto riduttiva, schiacciata sulla dimensione economica e dimentica della sua valenza più profonda. Reddito di cittadinanza e salario minimo contraddicono l’orizzonte di senso del lavoro, che chiama invece a spirito di iniziativa, creatività e responsabilità. Si tratta di due misure che anziché attivare tutto ciò, rendono passiva la persona e creano una cultura – soprattutto nei più giovani – di dipendenza dall’assistenza pubblica.
Per esempio, il salario minimo legale sul quale governo e opposizione si stanno confrontando presenta alcuni limiti strutturali che vanno guardati per evitare di prendere scorciatoie pericolose. Innanzitutto, è bene ricordare come l’Unione Europea caldeggia la sua adozione solo per quegli Stati nei quali si registra una bassa contrattazione sindacale. Per una volta, l’Europa riconosce e difende il principio di sussidiarietà che i corpi intermedi possono incarnare nelle dinamiche sociali e del mercato. L’Italia è la nazione con il più alto tasso di contratti firmati dalle rappresentanze datoriali e sindacali e non siamo quindi costretti ad applicare il salario minimo perché “ce lo chiede l’Europa”.
Una sciagurata intrusione dello Stato
Inoltre, la fissazione per legge di un salario minimo a 9 euro – numero figlio di un accordo tra i partiti di opposizione anziché di una valutazione tra le parti – bloccherebbe la crescita retributiva rendendo più difficili i rinnovi contrattuali. L’esito paradossale sarebbe quindi di vedere ulteriormente schiacciati verso il basso tutti i salari. Al tempo stesso, è bene ricordare di come verrebbe svuotato di efficacia l’articolo 36 della Costituzione che riconosce proprio ai sindacati il compito della tutela degli interessi dei lavoratori. Questa intrusione dello Stato sarebbe pertanto assai grave.
È chiaro come il governo debba trovare soluzioni per quei settori dove la contrattazione è ridotta e i salari sono sotto la media dei contratti maggiormente applicati (vedi i servizi alla persona, di vigilanza o la logistica). Ma la soluzione può essere di natura fiscale, premiando il rinnovo dei contratti scaduti da troppo tempo oppure spingendo sulla partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa, come proposto dalla Cisl con una proposta di legge di iniziativa popolare che dovrebbe giungere in Parlamento entro la fine dell’anno. I salari bassi si combattono con un pacchetto di misure, non è sufficiente farlo con una riga di legge o con un numero frutto della cabala.
Articolo pubblicato sulla rivista Tempi di Settembre 2023